La Dottoressa Simonetta Masaro, specializzanda in Chirurgia al IV anno, ha trascorso nl 2014 un semestre di tirocinio clinico a Matany. Questa è una sua testimonianza:
«Una grande palestra per imparare a non giudicare, a mettersi in discussione, a capire che esistono culture drammaticamente diverse. Un lunedì mattina arriva una madre che ha camminato non so quante ore per venire dal suo villaggio, al collo ha un bambino di tre mesi, è ustionato sul cinquanta per cento del corpo, ci racconta che è stata l’acqua bollente di un pentolone. La situazione è drammatica, prima lo reidratiamo, poi decidiamo di portarlo in sala operatoria per togliergli tutto il tessuto morto. Una cosa terribile, gli asporto tutta la pelle bruciata, si staccano anche le falangette delle dita delle mani. Poi facciamo le medicazioni e lo portiamo nel reparto insieme alla mamma. Due giorni dopo la situazione è miracolosamente buona, vado a trovarlo e lo vedo che poppa dal seno della madre, una ripresa incredibile.
Giovedì torno a visitarlo ed è vispo, migliora in modo veloce, la mamma allora mi chiede quanto tempo ci vorrà perché guarisca. Chiamiamo la traduttrice e le spiego che forse serviranno tre mesi, ma che per almeno sessanta giorni devono restare qui, per cambiare le medicazioni ed evitare infezioni, che al villaggio nelle case di fango e paglia sarebbero quasi certe. Lei mi guarda fissa e resta in silenzio. La saluto, le prometto che tornerò a trovarli sabato, dopo la riunione settimanale di tutti i medici. Non li vedrò mai più.
È il pediatra ad aprire la riunione con la notizia: ‘II bambino di tre mesi, quello con le ustioni, è morto’.
Non ci posso credere, penso di non aver capito niente, che si stia sbagliando, faccio altre domande e il pediatra ripete la frase in modo automatico. Chiedo allora come sia stato possibile e la risposta mi devasta: ‘Giovedì, dopo il giro delle visite, la mamma ha smesso di allattarlo, lo ha rifiutato, lo ha lasciato solo ed è tornata al villaggio. Il bambino non ce l’ha fatta ed è morto’.
Ho cominciato a piangere di dolore e di rabbia, lo avevamo salvato, era suo figlio e lei lo abbandona, lo lascia morire. Avrei voluto cercarla per gridarle il mio disprezzo, e per tutta la giornata ho pensato che davvero non ne valeva la pena. Poi un medico africano mi ha avvicinato e mi ha detto: ‘Ha dovuto scegliere, a casa ha sette bambini e non poteva restare qui due mesi. È la stagione del raccolto e, se non fosse tornata al villaggio, avrebbe condannato alla fame gli altri bambini. Ha sacrificato il più piccolo per salvare gli altri, per tornare nei campi, per preparare da mangiare. Forse non capirai mai, ma questa è la realtà delle cose’. Quel giorno ho imparato a fare il mio lavoro senza giudicare, a capire, anche se questo non significa accettare”».