L’Uganda, come tutti i paesi del Sud del mondo, presenta luci e ombre che devono fare riflettere ogni occidentale che si tenga aggiornato, con una sensibilità che gli consenta gli opportuni paragoni con il nostro Nord del mondo, non sempre certamente migliore.
Tre fatti dall’Uganda in generale ci stanno ultimamente coinvolgendo.
Una notizia, che si ripete e si concretizza ormai ogni cinque anni, riguarda le modificazioni costituzionali che il presidente Yoweri Muséveni si appresterebbe a fare votare dal Parlamento. Nell’originaria Costituzione, promulgata dallo stesso Muséveni, era stabilito che in Uganda un presidente non potesse essere rieletto dopo due mandati. Muséveni sta svolgendo il quinto mandato, dopo avere apportato idonee modifiche costituzionali.
Inoltre, il limite di età massimo per potere concorrere alle elezioni è di 75 anni. Il capo di Stato in carica – Yoweri Muséveni ne ha ora 73 – si troverà quindi impossibilitato a candidarsi alle prossime presidenziali del 2021, nel caso in cui volesse presentarsi per il sesto mandato. Per questo da più parti s’intravede, in una riforma che sposti o elimini questo limite, la volontà da parte del presidente – in carica ormai da 31 anni – di garantirsi una possibilità di rielezione, forte del contributo dato alla fine della dittatura negli anni Ottanta.
Sette persone sono state arrestate a metà settembre a Kampala per avere preso parte a una manifestazione pubblica contro la proposta di prolungare il limite di età. Il gruppo di giovani attivisti politici, che si definisce «L’Alternativa» e che si batte per bloccare tale proposta di modifica costituzionale, denuncia che le forze dell’ordine hanno anche fatto irruzione nella loro sede, sequestrando personal computer e altro materiale relativo alla loro attività.
Questo sviluppo istituzionale fa pensare ai molti episodi africani di «capi di Stato a vita».
In questi anni, il problema dei migranti sta coinvolgendo molte aree del mondo. L’Uganda è una di queste, a causa della fuga di molti dal Sud Sudan a seguito della guerra civile che in quella nazione è in corso ormai dal 2013, tra l’indifferenza generale: si parla di 3,4 milioni di abitanti, un quarto della popolazione totale. Il conflitto coinvolge in una spirale di violenza le due tribù Dinka e Nuer. Con un numero di rifugiati di 1.250.000 su una popolazione ugandese di 35 milioni e con l’arrivo quotidiano di nuovi profughi, l’Uganda è divenuta quasi un rifugio privilegiato per coloro che fuggono dalla violenza della guerra.
Tra gennaio e aprile sono giunti 230.000 rifugiati, il 60% dei quali sono bambini e donne: la guerra civile ha diviso le famiglie. Il governo ugandese ha istituito a Imvepi e in altre strutture specifiche alcune aree per donne vulnerabili, che hanno subìto violenza, e per bambini non accompagnati.
Ma non è solo il Sud Sudan il punto di partenza dei profughi. Nei primi quattro mesi del 2017, dal Congo sono giunti 14.900 profughi, 2.900 dal Burundi, 2.700 dalla Somalia e 1.700 da altri paesi. A ciascun capofamiglia venivano inizialmente assegnati 100 mq di terra da coltivare, ma il gran numero di sfollati ora ha fatto ridurre l’assegnazione a 30 mq.
I rifugiati che sono giunti in Karamoja attraverso il confine con il Kenya attraverso Kaabong, Kotido e Amudat sono i profughi che il Kenya ha deciso di estromettere dai propri campi, per un totale di 300.000 su 500.000, in gran parte somali. È stato istituito a Naakabat, vicino a Moroto, un campo in una miniera aurifera chiusa. Forze di sicurezza sono state dispiegate in numero adeguato al compito di tutelare la sicurezza dell’area.
Questa disponibilità dell’Uganda all’accoglienza è certamente un punto d’onore.
In questi mesi estivi, in Italia c’è stato un (1) caso di malaria conclusosi tragicamente per la piccola vittima di soli 4 anni. Immancabili si sono subito levate le voci di nostri politici razzisti, che vedono nell’accoglienza dei profughi un incontrollabile pericolo («Ora vengono anche a infettarci»).
Secondo la circolare del ministero della Salute dello scorso dicembre per la Prevenzione e il controllo della malaria in Italia, dal 2011 al 2015 sono stati notificati 3.633 casi, di cui l’89% con diagnosi confermata. La quasi totalità è d’importazione, i casi autoctoni riportati sono stati solo sette. I decessi sono stati in totale quattro, dovuti a infezioni da Plasmodium falciparum acquisite in Africa. Il 70% dei malati sono uomini, il 45% ha un’età compresa tra i 24 e i 44 anni. I cittadini italiani colpiti da malaria sono il 20% dei casi, di cui il 41% era in viaggio per lavoro, il 22% per turismo, il 21% per volontariato/missione religiosa. Gli stranieri rappresentano ben l’80% e, di questi, l’81% dei casi si è registrato tra immigrati regolarmente residenti in Italia e tornati nel paese d’origine in visita a parenti e amici, il 13% tra immigrati al primo ingresso. La maggior parte dei casi è notificata nelle regioni del Centro-nord.
Ben diversa la situazione nelle aree tropicali e sub tropicali, dove la malaria rappresenta ancora la più importante malattia trasmessa da un vettore. Secondo l’ultimo rapporto Oms (World Malaria Report, dicembre 2015), sono 95 i paesi ancora con endemia malarica, circa 214 milioni i casi e 438 mila i decessi nell’anno. A Matany la maggiore causa di ricoveri in Ospedale è proprio la malaria, con 2.500 casi e 50 decessi l’anno. Non è certo per sminuire eventuali responsabilità diagnostiche in Italia che si sottolinea questo dato comparativo, ma solo per accrescere in noi la sensibilità e il desiderio di intervenire a sostegno dell’opera che Matany svolge da 46 anni.