Volontari

  • Lettera del dottor Sebastiano Cipriano, responsabile del Programma CUAMM

    Lettera del dottor Sebastiano Cipriano, responsabile del Programma CUAMM

    Il dottor Sebastiano Cipriano oggi a Matany, e già medico a Matany per tre anni dal 1985 al 1987, ci scrive:

    Carissimi del Gruppo di Appoggio Ospedale di Matany, sono stato a Matany un anno esatto, dal 7 gennaio del 2015 al 7 gennaio di questo anno. Il mio incarico consisteva nel gestire il Reparto di Chirurgia dell’Ospedale, fare da tutor a un JPO [Junior Professional Officer] italiano specializzando in chirurgia e gestire il programma della tubercolosi multi-resistente nel distretto di Napak, che praticamente nasceva con il mio arrivo a Matany. Fare chirurgia è il mio lavoro, ma la tubercolosi è una patologia infettiva che un chirurgo non è abituato ad affrontare. Queste sono le sfide che l’Africa ci mette di fronte, d’altra parte sapevo bene come si lavora in Karamoja, essendo già stato a Matany, per circa 3 anni, esattamente 30 anni fa. Così ho dovuto documentarmi, improvvisarmi infettivologo e capire cosa fosse la TB multi-resistente, mi sono ritrovato in un ambito a me desueto ma molto interessante. Il fatto di uscire dall’Ospedale e fare le supervisioni negli Health Center e nei villaggi dove si trovavano i pazienti affetti dalla malattia mi ha permesso di conoscere molte persone e la realtà esterna all’Ospedale: ciò ha reso ancora più interessante questa mia esperienza.

    Ho toccato con mano la realtà dei villaggi, quanto poveri siano i Karimojong, quanto sia diversa la loro cognizione del tempo, della vita, della morte.

    Ho toccato con mano la realtà dei villaggi, quanto poveri siano i Karimojong, quanto sia diversa la loro cognizione del tempo, della vita, della morte.
    La cosa che mi ha più colpito è il fatto che siamo sempre stati accolti con calore; direi che l’accoglienza è una delle note caratteristiche di questo popolo, nonostante i Karimojong negli anni passati si fossero guadagnati la fama di popolo truce e violento. Altra cosa che mi ha colpito è che non posso dire di avere incontrato persone infelici, nonostante l’estrema povertà.

    In questo anno ho incontrato molte persone straordinarie, come fratel Günther, comboniano tedesco tetragono e teutonico; grazie a lui l’Ospedale riesce, nonostante mille difficoltà, per lo più economiche, a fornire un servizio prezioso e regolare a questa gente. E che dire di suor Giovanna, vicentina, a volte un po’ ruvida, ma sempre efficiente nel gestire il magazzino e riuscire a trovare ogni giorno i presidi sanitari di cui abbisognavamo? E la dottoressa Emanuela, in Uganda dal 1999, che gestisce la Medicina e che quando le ho chiesto per quanto tempo pensava di rimanere ancora a Matany candidamente mi ha risposto: “Questa è la mia vita!”. Senza dimenticare il dinamico Vescovo Damiano e i padri missionari che ho incontrato, come padre John Bosco, comboniano ugandese parroco a Matany, e Padre Denis, anche lui giovanissimo padre comboniano Acholi, finito per amore del Padre tra gli atavici nemici della sua gente, segno profetico di speranza per un futuro senza guerre tribali, in Uganda e in tutta l’Africa. Ma non solo loro, vorrei ricordare anche padre Aldo, padre motociclista, padre Marco che gira il Karamoja con la sua ruspa, suor Bruna che ho ritrovato dopo 30 anni, e suor Angiolina, Alphonse, Sophia la mia caposala, e i medici ugandesi che sono veramente tanto bravi… tutti hanno lasciato un segno nel mio cuore.

    Sebastiano Cipriano

  • Il semestre di tirocinio clinico a Matany di Simonetta Masaro

    Il semestre di tirocinio clinico a Matany di Simonetta Masaro

    La Dottoressa Simonetta Masaro, specializzanda in Chirurgia al IV anno, ha trascorso nl 2014 un semestre di tirocinio clinico a Matany. Questa è una sua testimonianza:

    «Una grande palestra per imparare a non giudicare, a mettersi in discussione, a capire che esistono cultu­re drammaticamente diverse. Un lunedì mattina arri­va una madre che ha camminato non so quante ore per venire dal suo villaggio, al collo ha un bambino di tre mesi, è ustionato sul cinquanta per cento del corpo, ci racconta che è stata l’acqua bollente di un pentolone. La situazione è drammatica, prima lo reidratiamo, poi de­cidiamo di portarlo in sala operatoria per togliergli tut­to il tessuto morto. Una cosa terribile, gli asporto tutta la pelle bruciata, si staccano anche le falangette delle dita delle mani. Poi facciamo le medicazioni e lo portiamo nel reparto insieme alla mamma. Due giorni dopo la situazione è miracolosamente buona, vado a trovarlo e lo vedo che poppa dal seno del­la madre, una ripresa incredibile.

    Giovedì torno a visitarlo ed è vispo, migliora in modo veloce, la mamma allora mi chiede quanto tempo ci vorrà perché guarisca. Chiamiamo la traduttrice e le spiego che forse serviranno tre mesi, ma che per almeno sessanta giorni devono restare qui, per cambiare le medicazioni ed evitare infezioni, che al vil­laggio nelle case di fango e paglia sarebbero quasi certe. Lei mi guarda fissa e resta in silenzio. La saluto, le pro­metto che tornerò a trovarli sabato, dopo la riunione set­timanale di tutti i medici. Non li vedrò mai più.

    È il pediatra ad aprire la riunione con la notizia: ‘II bambino di tre mesi, quello con le ustioni, è morto’.

    Non ci posso credere, penso di non aver capito niente, che si stia sbagliando, faccio altre domande e il pediatra ripete la frase in modo automatico. Chiedo allora come sia stato possibile e la risposta mi devasta: ‘Giovedì, dopo il giro delle visite, la mamma ha smesso di allattarlo, lo ha rifiutato, lo ha lasciato solo ed è tornata al villaggio. Il bambino non ce l’ha fatta ed è morto’.

    Ho cominciato a piangere di dolore e di rabbia, lo avevamo salvato, era suo figlio e lei lo abbandona, lo lascia morire. Avrei voluto cercarla per gridarle il mio disprezzo, e per tutta la giornata ho pensato che davve­ro non ne valeva la pena. Poi un medico africano mi ha avvicinato e mi ha detto: ‘Ha dovuto scegliere, a casa ha sette bambini e non poteva restare qui due mesi. È la stagione del raccolto e, se non fosse tornata al villag­gio, avrebbe condannato alla fame gli altri bambini. Ha sacrificato il più piccolo per salvare gli altri, per tornare nei campi, per preparare da mangiare. Forse non capirai mai, ma questa è la realtà delle cose’. Quel giorno ho imparato a fare il mio lavoro senza giudicare, a capi­re, anche se questo non significa accettare”».